Il Festival tra talent show, social e pop politics. Che fare?

La vittoria assegnata al giovane italo-egiziano Mahmood ha fatto infuriare i partecipanti al televoto, e ha scatenato opposte tifoserie tanto sui social network che tra politici, ministri e giornalisti. Puntuali come dopo ogni partita della Nazionale di calcio (quando tutti si scoprono commissari tecnici), dopo Sanremo gli italiani hanno indossato i panni dei critici musicali e addirittura dei sociologi, vedendo nella spaccatura tra le giurie cosiddette di qualità e la massa dei televotanti, la stessa frattura che si sarebbe creata nel paese tra il popolo e le élite. Così l’ultimo Festival di Sanremo è diventato una sorta di Rashomon dove ognuno vede e racconta solo una piccola parte della verità.

Dal 1951, ininterrottamente, il festival della Canzone è diventato un fenomeno di costume che una volta l’anno appassiona il paese per i più svariati motivi. Dai testi delle canzoni, ai compensi degli ospiti, dalle farfalline tatuate all’inguine di presentatrici sexy, alle performance di comici e presentatori. Poiché tutto si tiene e oramai tutto è politica, anche il Festival di Sanremo - oggi assai più che in passato – è la cartina di tornasole di un paese in preda ad una perigliosa confusione sociale.


Per cercare di uscire dalla sindrome di Rashomon, è opportuno analizzare con un un minimo di approfondimento le sempre più complesse dinamiche che stanno dietro ad una manifestazione nata semplicemente per promuovere una località balneare durante il periodo invernale.

Da Filogamo a Baglioni

La prima edizione del Festival, trasmessa per radio, passò abbastanza inosservata, ma dalla seconda in poi diventò ben presto un immancabile appuntamento per gli italiani, richiamati dall’indimenticabile voce del mitico Nunzio Filogamo che salutava gli ascoltatori con il suo famoso annuncio “Miei cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate!".


Per molti anni, finché imperò il perbenismo democristiano, secondo gli storici della canzone i testi non uscivano dal triangolo “Dio, Patria, Famiglia”. Nel 1966 fecero capolino le prime istanze ambientaliste: come dimenticare “Il ragazzo della via Gluck” di Celentano, che peraltro fu subito esclusa? Negli anni a seguire molti testi divennero più espliciti o allusivi alla situazione sociale, in quanto – va detto - le eventuali polemiche potevano anche aiutare ad attirare l’attenzione.

Giurie, croce e delizia

All’inizio le canzoni venivano votate da giurie popolari, ed è ben chiaro il ricordo della suspense che si creava, quando dalle sedi regionali della Rai una annunciatrice diceva “La giuria riunita nelle sede di Torino ha così votato…”, e bisognava attendere che si facesse tutto il giro d’Italia per conoscere il risultato finale. Il massimo della discussione si creava intorno alle diverse preferenze votate dalle venti regioni. Come grande progresso, ad un certo momento è comparsa l’opportunità del televoto, ma ben presto ci si accorse che le major discografiche erano in grado di accaparrarsi tramite i call center consistenti pacchetti di voti. Per questo motivo sono state introdotte, e con diversi pesi nel tempo, le giurie di giornalisti, “di qualità” e “d’onore” (mai capito cosa significasse). Dando inevitabilmente origine a problemi mai risolti, perché più volte è accaduto che il cosiddetto voto popolare venisse modificato significativamente dalle giurie cosiddette tecniche. E altrettanto spesso è successo che le canzoni vincitrici cadessero rapidamente nell’oblio, proprio perché non gradite alla massa dei televotanti.

Il ruolo dei talent

Un altro problema fu creato dal successo dei cosiddetti “Talent” come Amici e X- Factor. Vincendo o piazzandosi bene in questi concorsi, i cantanti che poi si presentavano a Sanremo partivano avvantaggiati in quanto già ben noti al pubblico del televoto. Grazie ai progressi dell’informatica il televoto è poi ulteriormente diventato nel tempo sempre meno sinonimo di scelte popolari trasparenti e reali, data la nuova possibilità di affittare intere batterie di bot (software/robot capaci di usare la rete telefonica come esseri umani) e quindi anche di…televotare. L’emergere di questa realtà ci obbliga a riflettere sulle vere e proprie sciocchezze che circolano da tempo sulla presunta democrazia della rete, che al momento è invece uno degli ambienti più manipolabili a qualunque fine.

La corsa all’Auditel

Venendo avanti negli anni, il Festival è diventato uno dei più importanti eventi grazie al quale la Rai poteva ambire a share e audience così significative da consentire una cospicua raccolta pubblicitaria: una sorta di equivalente del Super Bowl americano. Nel 1987, primo anno di rilevazioni Auditel, lo share raggiunse infatti una media mai vista: 68,71 per cento (77,7 per cento la quarta serata!). Con alterne vicende, ma senza troppi scostamenti, da allora ad oggi lo share medio si è sempre attestato più o meno intorno al 50 per cento, che è un risultato davvero notevole. Finché la manifestazione è stata in grado di mantenere la sua essenziale caratteristica di gara canora, a garantire in partenza gli ascolti c’erano gli anchor-man più amati dagli italiani come Mike Bongiorno e Pippo Baudo.


Per i dirigenti della Rai le cose hanno cominciato a complicarsi quando divenne necessario coniugare la gara canora con frammenti di spettacolo e di costosi ospiti internazionali, oltre che per la sempre maggiore pressione delle case discografiche interessate prima alla pre-selezione dei cantanti da far partecipare al Festival, e poi ai posti in classifica. È così che la scelta del direttore artistico è sempre di più stata apprezzata o criticata come avviene per il Commissario tecnico della nazionale. Inutile nascondersi dietro un dito: non è certo cosa semplice districarsi in un simile intreccio tra musica, spettacolo, audience, pubblicità, promozione e vendite di dischi. E marchette sempre in agguato.

Imparzialità delle giurie

Non sorprende poi scoprire, come apertamente dichiarato sulla rete da alcuni autorevoli critici in questi giorni, che essendo da sempre i giornalisti musicali ospitati, omaggiati, e gratificati in vari modi, possa anche essere lecito metterne in dubbio la serenità di giudizio. Per non parlare del fatto che oggi sembra essersi creato una sorta di monopolio in grado di agire su tutte le leve del comparto musicale. Lo afferma a chiare lettere Luigi Rancilio, che non è proprio una voce qualunque, essendo stato per anni responsabile degli spettacoli di Avvenire (oggi ne è il Social Media Manager): “Il vero padrone del Festival (come ha denunciato per primo Michele Monina) è stato Ferdinando Salzano che con la sua F&P si sta mangiando il mondo della musica”. Analogo giudizio lo dà Red Ronnie (altro autorevole esperto del mondo musicale) su Huffington Post: “In sala stampa c'erano giornalisti che non hanno fatto mai una domanda imbarazzante. Per loro la massima aspirazione era essere invitati al Dopo Festival, non scrivere la verità su quanto stava accadendo. Questa purtroppo è una realtà”.

Un carico da undici

Le affermazioni di Rancilio e Red Ronnie costituiscono già di per sé un bel macigno nello stagno. A cui si è aggiunto il carico da undici di Maria Giovanna Maglie, intervenuta sulla giuria d’onore con la levità di un elefante in cristalleria: “Un vincitore molto annunciato. Si chiama Maometto, la frasetta in arabo c’è, c’è anche il Ramadan e il narghilè, e il meticciato è assicurato. La canzone importa poco, avete guardato le facce della giuria d’onore?”. Apriti cielo. Si è subito ingaggiata una battaglia che ha invaso social media, parlamento, talk show, giornali, gli amici del bar e chissà quanti altri ambienti. Accuse di razzismo da un lato, contro accuse sulle “facce” che rappresenterebbero il pensiero unico di sinistra che ha imperato ovunque da anni, specie sui fatti culturali e di costume. Anche su questo vale la pena di sentire ancora Rancilio: “Mauro Pagani, presidente della Giuria degli esperti è super partes, ma tutti gli altri? E ancora: quando ricordate a Ultimo che quello di quest’anno era lo stesso meccanismo di voto dell’anno scorso, dovreste provare anche a ricordare che non tutti i giurati sono uguali e che (puta caso) se al posto della Dandini e della Raznovich fossero stati messi Diego Fusaro e Maria Giovanna Maglie il risultato non sarebbe stato lo stesso.”. Difficile confutare.


Come già avvenuto altre volte, le canzoni sono state prese a pretesto per accapigliarsi intorno a temi di scottante attualità sociale. Ma in un assai paradossale contesto, in cui i termini della questione sono stati svuotati del loro significato, perché nel caso di specie non c’è stata una così clamorosa contrapposizione tra élite e popolo: per il semplice fatto che il voto popolare, essendo taroccabile, non è affatto “democratico”, ma ampiamente influenzabile dall’attività di qualche élite, o meglio, di qualche lobby. Che a volte coincidono. O si contrappongono.

La Rai sempre in mezzo

Alla fine c’è sempre di mezzo la Rai in quanto Servizio Pubblico, che, a seconda delle maggioranze e opposizioni del momento viene comunque presa di mira per le presunte violazioni di pluralismo e par condicio, tanto nella scelta del contenuto di un programma che nella scelta di una giuria. È ovvio che qualunque cosa farà si creeranno degli scontenti, ma ci sono almeno degli errori di base che una Rai di qualunque colore potrebbero davvero evitare.

Che fare?

Le questioni da affrontare sono certamente complesse, ma alla fin fine si scopre che riguardano concetti base di buona e sana gestione, e che dovrebbero essere tenuti maggiormente in considerazione dall'azienda televisiva del Servizio pubblico. Tutto il resto, capace di coinvolgere rapidamente costume e pubblica conversatio, dovrebbe essere trattato tenendo sempre come bussola un semplice principio: elevare il senso critico del paese. Cosa di cui c’è un urgente bisogno in questo particolare momento.

Ma:

1) Se si dà ad un direttore artistico il ruolo di selezionatore delle canzoni, presentatore, artista e cantante, si dà ad una persona sola un potere davvero smisurato. Se poi questi si canta anche sul palco le proprie canzoni - cumulando un bel gruzzolo di diritti Siae con gli altri compensi, come è stato fatto notare da più parti – si comincia proprio con il piede sbagliato. Meglio dividere i ruoli. E c’è lavoro per almeno tre figure professionali diverse.

2) Dovrebbe essere imperativo mirare con maggiore attenzione ad una sorta di pluralismo artistico, scegliendo cantanti e ospiti delle più diverse case discografiche e società di promozione.

3) Abolire le due tipologie di gara canora è stato un errore, perché una leonessa come Loredana Bertè sarebbe arrivata probabilmente prima nella sua, invece di doversela vedere con un concorrente con cinquant'anni di meno e un bagaglio musicale del tutto diverso. La riprova che con una gara canora unica si mescolano le pere con le mele. Dato che si è dichiaratamente andati alla caccia di due pubblici (quello più e quello meno giovane) - e pure con un certo successo - si potrebbero ricreare due sezioni proprio secondo un criterio semplicemente anagrafico: per esempio, fino a 35, e da 36 in poi. O qualcosa di simile.

4) Ventiquattro canzoni sono decisamente troppe, da ricordare e da votare. L’abolizione della gara unica consentirebbe di ritornare alla presentazione di non più di dieci canzoni per sera, lasciando maggiore spazio a intermezzi di comici e numeri di spettacolo, rendendo così la serata televisiva più godibile e pure capace di raccogliere un pubblico ancora più ampio.

5) L’obiettivo più difficile da raggiungere è l’individuazione di un meccanismo di votazione che sia realmente democratico, impedendo il brokeraggio dei voti. Con lo stesso attento uso dell’Intelligenza Artificiale che sanno mettere in campo i broker informatici, è certo che ci si potrebbe riuscire… sempre che lo si voglia. Ma potrebbe essere un vero colpo di genio ripescare l’antica liturgia delle giurie selezionate per sorteggio con criteri rappresentativi della società italiana, e riunite nelle varie sedi regionali. Potrebbe avere un appeal di spettacolo completamente nuovo e persino rivoluzionario, proprio nell’era dei social, e consegnerebbe un risultato reale e non manipolabile. Ma siamo sicuri che interessi?

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